Chiusura anatomica e apertura mentale
Di Tatiana Pellegri-Bellicini
Il progetto Sigrid Undset ci ha insegnato ad avere uno sguardo sulla realtà femminile nella sua globalità ed interezza. In un’occasione quasi casuale abbiamo avuto la fortuna di incontrare tre donne, Marian Ismail, attivista somala, Marina Madeo, medico della COOPI e Marica Livio, psicologa, che si occupano da vicino di una tradizione ancora radicata in alcuni paesi del Mondo: le mutilazioni genitali femminili. Vi proponiamo un estratto delle interviste raccolte nell’ambito dell’emissione televisiva Caritas Insieme che è andata in onda il 24 novembre scorso.
Nel mondo sono circa 120 milioni le donne che hanno subito una qualche forma di mutilazione genitale e almeno due milioni di ragazze sono a rischio ogni anno, ma proprio per l’intimità di queste pratiche non è possibile conoscere il numero preciso. Le mutilazioni genitali femminili costituiscono una pratica che lede l’integrità psicofisica della donna e della bambina, rappresentano una violazione dei diritti dell’uomo, e per questa ragione vanno condannate, combattute ed abolite. Non possiamo però sperare che questa tradizione sia sradicata senza cercare di capire il contesto culturale e sociale dei paesi in cui vige questa pratica. Occorre considerare la mancanza dello sviluppo economico, la fame, la siccità, le malattie, l’analfabetismo e soprattutto la cultura che subordina la donna all’uomo.
Secondo la definizione del Technical Group del Word Help Organisation le mutilazioni genitali femminili sono tutte quelle pratiche che in qualche modo rovinano, deturpano e alterano la conformazione degli organi genitali femminili esterni delle donne e delle bambine. Che cosa viene inflitto concretamente alle bambine?
Marina Madeo: esistono diversi tipi di mutilazione, la forma più lieve è la clitoridectomia, la forma intermedia è l’escissione cioè l’asportazione del clitoride e delle piccole labbra attorno al clitoride. La forma più deturpante è l’infibulazione che comporta l’escissione del clitoride, delle piccole labbra e delle grandi labbra. La chiusura della fenditura che rimane è realizzata con dei punti che spesso, secondo la tradizione, vengono dati con aghi fatti di spine di acacia.
A che età vengono effettuate?
Marica Livio: in genere è effettuata su bambine prepubere, da pochi giorni di vita al periodo che precede le prime mestruazioni. In alcuni casi avviene successivamente alla vigilia del matrimonio o durante la prima gravidanza, ma sono casi più limitati.
Quali sono le conseguenze a breve e lungo termine?
Marina Madeo: i problemi riscontrati dipendono dal tipo di mutilazione che è stata praticata, dalle condizioni di vita della donna e dalla possibilità di accedere a delle strutture sanitarie e dei servizi sanitari nel momento in cui i problemi si presentano. Le conseguenze a breve termine sono emorragia ed infezioni. I problemi a lungo termine sono generati da un restringimento fisico del canale del parto. Nel momento in cui la donna che ha subito una mutilazione genitale deve partorire, l’ultima parte del canale del parto è quasi chiusa questo provoca un ritardo nella progressione del bambino e la compressione sulla parete della vagina. Dopo il parto, può formarsi una fistola tra la vescica e la vagina. È una conseguenza terribile anche da un punto di vista psicologico perché le donne perdono le urine e quindi si sentono socialmente rifiutate perché impure, oltre a provocare infezioni ricorrenti, fino alla setticemie.
Spesso si collega questa pratica ad un credo religioso, in particolare alla religione islamica. Le mutilazioni genitali femminili nascono dalla religione?
Marian Ismail: la religione non c’entra, questa tradizione è presente nell’Africa islamica e in quella cattolica, nell’Africa protestante, nell’Africa ebrea, nell’Africa animista... È una tradizione sociale, culturale. È quindi un luogo comune da sfatare il fatto che questa pratica sia in relazione con un credo religioso, addirittura il corano è uno strumento utilizzato per scoraggiare questa pratica.
Marica Livio: tutte le religioni monoteistiche sono arrivate in questi paesi prevalentemente della fascia Sub-sahariana, molto dopo l’istaurarsi di queste tradizioni. Semmai, in alcuni casi, sia la religione cattolica sia quella islamica sono servite di sovra-giustificazione a queste pratiche, per quello che attiene alla castità e alla verginità delle donne
Ma se non è un credo religioso come è entrata a fare parte così profondamente della cultura di un popolo?
Marica Livio: è difficile risalire alle vere origini delle MGF che probabilmente si perdono nella notte dei tempi. È un atto fisico che iscrive la donna in un ruolo preciso e specifico che deve assumere all’interno della società. Questo atto avviene sulle sue parti più intime e non è poi così distante da quello che avviene e che è avvenuto in tutte le epoche da parte del genere maschile rispetto a quello femminile: il controllo della sessualità e soprattutto della filiazione, della procreazione e della certezza della paternità. Le forme nel mondo sono state infinite, dal lenzuolo bianco della prima notte, alle cinture di castità ed a mille altre forme di violenza psicologica che sono state e sono perpetuate sulla donna per mantenerla in una posizione di controllo e di sudditanza rispetto al suo partner.
Marian Ismail: è una tradizione sociale di controllo della sessualità di controllo della donna della sua verginità, della sua integrità morale che è basata non sull’integrità di intelletto e di comportamento ma sulla sua integrità fisica. Una chiusura dove si usa una chiusura. Si interviene sul corpo della bambina per preservarla da tutta una serie di cattivi costumi. Dopo questo rito la bambina è accettata dalla società.
Come è possibile che una madre che ha subito l’amputazione delle sue parti più intime permette che anche la figlia sia sottoposta allo stesso calvario?
Marica Livio: io dico sempre che le MGF sono un atto d’amore, sono un atto dovuto alla figlia effettuato con grande dolore e sofferenza affinché essa abbia un posto nella società. Non dobbiamo pensare che una madre si diverta quando porta la figlia a subire una mutilazione. Sbagliamo quando la chiamiamo tortura. Non sbaglia se la chiama così una donna somala, perché lei ha il diritto di chiamarla tortura. La tortura è l’atto deliberato di violenza e di distruzione dell’essere che abbiamo di fronte, in questo caso una madre sa che sta costruendo una figlia, costruendole il futuro come donna. Esattamente il contrario di quello che è un atto di tortura.
Una pratica da abolire, un cambiamento che deve avvenire. Ma quale sguardo dell’occidente, e cosa fare per contribuire a questo cambiamento…
Marica Livio: una volta che la parte femminile ha il coraggio di dire basta, ha il coraggio di rompere il silenzio e di cambiare le proprie azioni, il gioco è fatto ed è quello che sta succedendo. Certamente non nella maniera omogenea che ci possiamo immaginare come una pianificazione a tappeto e a tavolino, ma niente può avvenire in questo modo in un contesto così articolato e delicato come quello di cui stiamo parlando.
Marian Ismail: sono 24 o 23 gli Stati africani che hanno ratificato un trattato di contrasto alle mutilazioni supportata dalle Nazioni Unite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Però sono leggi, che devono essere applicate, ma possono essere applicate solo da noi, le donne.
Il lavoro necessario è quindi culturale e immagino che i toni scandalistici con cui vengono trattate le MGF dai media non aiutino.
Marian Ismail: non credo alle campagne piene di sensazionalismi e scandali da mettere a grandi titoli. L’occidente deve fornire gli strumenti, non deve sostituirsi a noi. Sono molto più efficace io, nella mia lingua per spiegare queste cose piuttosto di una volonterosissima donna occidentale che dice che queste cose non si fanno. Noi chiediamo di essere supportate, che qualcuno ci stia alle spalle non davanti, qualcuno ci stia a fianco non davanti. Abbiamo bisogno di avere gli strumenti per intervenire, per sensibilizzare, per cambiare profondamente, per far capire a queste persone che un cambiamento è possibile.
Marica Livio: mai calare nulla dall’alto, questo è il messaggio più importante e fondamentale per una corretta gestione di un cambiamento sociale di così vasta portata. Lavorare sempre insieme alle popolazioni direttamente interessate.
Marina Madeo: gli interventi che hanno in qualche modo ottenuto dei risultati sono quelli generati all’interno delle comunità di base e con le organizzazioni non governative locali o internazionali, in cui l’esigenza è nata all’interno delle comunità.
Marian Ismail: abbiamo coinvolto i padri i mariti. L’uomo non sapeva, perché è una tradizione fatta dalle donne, abbiamo reso i nostri uomini, i nostri mariti ambasciatori di questa scelta. Somali, uomini somali che hanno detto no, non vogliamo, non ci interessa. Lo scoop giornalistico, il voyeurismo, porta le donne a chiudersi. Nessuno potrà mai pagare una donna mutilata per quello che ha perso e quindi chiunque si avvicini a un problema di questo tipo con tutta la volontà di volerlo cambiare non può, come accade, limitarsi allo scoop giornalistico, filmando donne che piangono con un primo piano sul sangue che cola. La persona che vede questo può solo pensare che gli africani sono selvaggi, sono persone veramente strane. E tutto si limita a questo giudizio.
Marica Livio: bisogna avere un sacro rispetto di queste tematiche, e di questa problematica perché affrontarla non vuol dire giudicare o stigmatizzare. Non significa dare del barbaro o del selvaggio a chi per condizioni ancestrali ha portato avanti quello che noi consideriamo una violenza e una mutilazione. Occorre un rispetto sacro quando pensiamo alle bambine mutilate e quando pensiamo alle madri che le accompagnano a farsi mutilare.
(*) medico